MotoGP – L’importanza di chiamarsi Ducati

MotoGP – L’importanza di chiamarsi DucatiMotoGP – L’importanza di chiamarsi Ducati

Non è una casa come tutte le altre. Non è nemmeno la Ferrari a due ruote. La Ducati è qualcosa di più, di unico, irripetibile in un mondo dove il senso di appartenenza prevarica le aspettative dei responsabili di marketing e le geometrie del mercato. La Ducati è l’emblema di come il motociclismo non rappresenti una moda del Terzo Millennio: la storia, ineguagliabile, forma il presente trasformando il futuro, rappresentando quello che dovrebbe essere la cultura a due ruote. Più che una cultura, un culto, venerando tutto quanto viene sfornato quotidianamente a Borgo Panigale. E’ questo il Rosso Ducati, che porta avanti la bandiera tricolore nel mondo, nella produzione di serie e nelle competizioni, simbolo dell’italianità da esportazione. La Ducati è questo e altro: un universo caratterizzato dal rendere l’artigianato su larga scala, pur mantenendo l’unicità che esso rappresenta. Si risponde alle esigenze di mercato, ma ancor prima bisogna esaudire le richieste dei Ducatisti. Questo è il punto di forza e allo stesso tempo una difficoltà per chi del “Pompone” ha fatto uno stile e filosofia di vita.

I tempi cambiano, da Via Cavalieri Ducati non escono solo ipersportive prede della nicchia nella nicchia, ma anche Sport Touring, Hypermotard, Multistrada, il tutto per allargare la famiglia, purchè questo non comprometta alla visione di questi modelli l’esclamazione “Sì, questa è proprio una Ducati”. Questo è il punto di partenza, nella serie e nelle competizioni, reduci da un 2006 che a tutti gli effetti è stato l’anno migliore di sempre. Dominio incontrastato nella Superbike, vittorie e titolo sfiorato in MotoGP. Far meglio nel 2007 che da poco ha aperto le sue porte è l’aspettativa, l’ambizione di Domenicali e soci. Se in SBK i recenti test con un Bayliss versione aliena confortano l’eterna competitività della criticata quanto vincente 999, in MotoGP bisogna ancora vincere la sfida nella sfida: correre nella classe regina del motociclismo confrontandosi con le 4 sorelle giapponesi.

L’italianità contro la meticolosità nipponica. Il cuore contro l’essenzialismo, il sentimento contro la ragione. Per vincere la Ducati ha preso la strada che meglio conosce, il motore desmodromico, il telaio a traliccio, emblemi storici negli ultimi 50 anni di Bologna. Nella nuova Desmosedici GP7 c’è ancora questo. Il nuovo challenge 800cc non ha alterato la propria visione tecnica: è vero, il telaio a traliccio torce, ma è quello che si conosce meglio. La distribuzione desmodromica non è la novità del secolo, ma a conti fatti è una certezza, al contrario di valvole pneumatiche e via discorrendo. Come andrebbe una Ducati “giapponese”? Bisognerebbe domandarsi se rappresenti ancora una Ducati… Il problema dunque non si pone: viva la tradizione proiettata nel presente e futuro dei Gran Premi. Con la nuova Desmosedici GP7, con la bandiera Loris Capirossi, con il neo-acquisto Casey Stoner.

Al fianco dell’imolese Suppo ha ingaggiato tutte le tipologie di piloti possibili dal 2003 ad oggi: colui che ha fatto la storia Ducati in Superbike (Bayliss), il pilota buono ma con fini doti da tester (Checa), il campione affermato (Gibernau). Adesso è la volta della promessa-scommessa, velocissimo nei test tra Valencia a Jerez, immedesimatosi subito nella nuova realtà. Non ha più Lucio Cecchinello come “padre putativo”, ma in compenso ha trovato la disponibilità di Capirossi e la fiducia dei tecnici in camicia rossa. Stoner deve dimostrare di meritarsi questa considerazione con i risultati, senza commettere quegli errori che hanno pesato nella seconda parte del 2006. Stesso dicasi per la Bridgestone, chiamata all’anno della verità dove ogni gara deve fruttare costanza di rendimento e velocità. In un puzzle vincenti, tutti i tasselli devono essere al loro posto. Così si vince, così si può cercare di conquistare la tabella #1. Nonché eccellere in quella che a tutti gli effetti è una sfida nella sfida.

Alessio Piana

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